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LA DOPPIA VITA DI VERONICA
(LA DOUBLE VIE DE VERONIQUE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 maggio 1991
 
di Krzysztof Kieslowski, con Irène Jacob, Philippe Volter, Aleksander Bandini, Louis Ducreux, Sandrine Dumas (Francia - Polonia, 1991)
 
Weronika e Véronique. Sono nate quello stesso 23 novembre 1966, alle tre del mattino, una a Varsavia, l'altra a Clermont-Ferrand: hanno ambedue il viso di una nuova Ingrid Bergman. Un identico talento musicale, un'identica voglia di fare all'amore. Ed un identico vizio cardiaco, che farà scomparire la Weronika polacca dopo soli 27 minuti di proiezione (proprio come l'eroina di PSYCHO) di una straordinaria, indimenticabile coscienza di vivere.

Weronika scompare, ma per far posto alla Véronique francese: che, più o meno inconsapevolmente, farà tesoro dell'esperienza della scomparsa: "Non sono sola" - dirà nel film. Ma noi spettatori sappiamo che ciò significa: "Non sono unica". LA DOPPIA VITA DI VERONICA non è quindi una banale esercitazione sul tema del doppio (fra i due episodi ci sono infiniti, sottili rinvii; ma anche differenti sviluppi dettati da una implacabile sceneggiatura, che fanno vivere di vita autonoma i due personaggi): piuttosto, una interrogazione, di commovente spiritualità e di vertiginosa raffinatezza linguistica, sul nostro intimo. Su quel dialogo che - una vita durante - svolgiamo con noi stessi.

Chi storce ancora il naso nei confronti dei temi kieslowskiani lamentandone origini mistiche, religiose o addirittura metapsichiche dimentica, una volta ancora, che tutto il cinema dell'autore del DECALOGO si regge su di un atto non esattamente di fede, quello del Caso. Quel caso che determina il nostro destino; ed al quale non dobbiamo comunque abbandonarci passivamente. Al contrario: poiché tutto è segnato, tanto vale esporci (moralmente, esistenzialmente, politicamente), senza troppi calcoli morali o mercantili.

È quindi per caso, un'unica volta, all'insaputa delle interessate, che le due Veroniche del film s'incontrano, in una sequenza da proiettare all'infinito agli studenti di cinema: su una piazza di Cracovia, tra i manifestanti che fuggono alle forze dell'ordine come cellule impazzite, la fotografia di una turista ad una ragazza che le assomiglia, una panoramica di 360 gradi della cinepresa dal grandangolare, la vertigine fulminea suscitata dalle cose dell'inspiegabile, nelle due giovani come nello spettatore.

Non in una fuga frettolosa nel fantastico, e nemmeno in un rifugio freddoloso nello spiritismo. Non occorre scomodare Iddio, sembra dirci Kieslowski, e nemmeno l'irrazionale: basta un po' di buon senso e d'umiltà nell'accettare quei segni che possono anche sfuggirci, nell'assumere ciò che il nostro istinto e le nostre sensazioni ci suggeriscono, senza il terrore preconcetto delle soluzioni che non siano garantite nero su bianco.

Come il pensiero del suo autore, il cinema di Kieslowski è di una inquietudine, ed al tempo stesso di una serenità sconvolgente. Poiché nasce dalla stessa equazione: il fascino dell'ignoto, il desiderio di mistero, in un essere governato da un alto grado di razionalità. La sua padronanza dell'ambiente, il suo modo di inserire gli oggetti, di sfruttare l'ambivalenza dei riflessi, delle illuminazioni, il suo modo di amplificare e privilegiare i suoni, di sfruttare la musica, di giocare in questo film di "doppi" sugli specchi, le lenti, i prismi, le superfici trasparenti che separano ma permettono di vedere, di conoscere, di ribaltare i significati, ogni aspetto dello sguardo cinematografico concorre a rimettere in dubbio le nostre certezze. Ad invitarci a quel viaggio nell'ignoto che solo ci può compensare dalle miserie di quello nel conosciuto.

Ma, al tempo stesso, il cinema di Kieslowski rifiuta la trappola dell'irrazionale (quella lamentata dai critici con il freddo agli occhi): grazie ad una "fisicità" che ha pochi confronti, uno sguardo che sa farsi quasi tattile, quando una mano accarezza le rughe di un tronco d'albero, per tentare di ricordare. Una sensualità prorompente e luminosa, che non si priva certamente del piacere di filmare i visi ed i corpi degli attori.

È un cinema che vive dal contrasto tra una struttura drammatica potentemente dominata, ed una visione registica aperta ad ogni suggestione. In una storia priva di veri e propri avvenimenti, LA DOPPIA VITA DI VERONICA costituisce allora (con forse qualche lieve esitazione nella parte centrale dell'episodio parigino) un seguito ininterrotto di annotazioni poetiche che - lungi dallo sconfinare nell'astrazione - conducono magistralmente al concreto.

Siano lacrime su un viso radioso che scopriamo essere le prime gocce di pioggia, la vibrazione fremente di un canto che si muta nello smarrimento della morte, il buio disperato di questa che rinasce nell'ocrato glorioso di due corpi allacciati in un atto d'amore, il soffio di vita che il burattinaio può inculcare o togliere a piacimento, gli altri mille fili sottili che ci legano alla realtà ma che ci rimandano continuamente al suo mistero, costituiscono per lo spettatore momenti irripetibili di riflessione e di gioia.

Nato dalla lucidità, dal pessimismo nella constatazione di un'epoca, il cinema di Kieslowski diventa allora quello ancora più commovente della consolazione.


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